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Recensione - Identità Fluida

 Recensione - Identità Fluida di Selenia Marinelli

(all’interno del libro Tevere Cavo, a cura di Antonino Saggio, 2023)


Il libro Tevere Cavo raccoglie una serie di progetti di tesi che affrontano il tema del fiume Tevere come spazio di rigenerazione urbana, sociale ed ecologica. L’obiettivo comune è quello di riattivare le aree marginali lungo il fiume trasformandole in luoghi di incontro, cultura e nuove economie, attraverso architetture capaci di dialogare con il contesto e con le sfide del presente. Ogni proposta assume il carattere di un’ipotesi critica e visionaria, in cui le discipline dell’architettura si intrecciano con sociologia, ecologia, arte e tecnologia.


Tra i lavori presentati, la Tesi di laurea di Selenia Marinelli intitolata Identità Fluida - Centro polifunzionale per la (ri)costruzione dell’uomo del XXI secolo -  si distingue per la capacità di legare riflessione teorica e ricerca architettonica. Collocato presso il complesso ex-CRAL del Poligrafico dello Stato, in Lungotevere dell’Acqua Acetosa, il progetto affronta il tema della trasformazione identitaria nell’epoca contemporanea, facendo riferimento alle teorie di Zygmunt Bauman sulla liquidità e alle suggestioni del Barocco come spazio immersivo e dinamico.



Tensione dei corpi



La proposta si articola come un nastro fluido che genera gli spazi interni ed esterni, in cui convivono funzioni diverse: un consultorio dedicato all’ascolto e al supporto psicologico, spazi commerciali e un teatro. Questa molteplicità di usi intende rispondere al bisogno di luoghi che accompagnino i processi di costruzione e ricostruzione del sé, creando un ambiente aperto alla comunità e inclusivo.



Il progetto non usa la metafora del nastro solo come gesto plastico, ma come proceduracapace di metabolizzare la preesistenza dell’ex-CRAL e di rileggerne le rigidità. La continuità verticale del nastro,

che “si coagula” nel piccolo teatro, costruisce una coreografia di attraversamenti più che un semplice sistema

distributivo: lo spazio non è dato, si fa mentre lo si percorre.

Questo movimento ricompone la frattura tra interiorità ed esteriorità evocata nel testo

(Barocco come spazio sensoriale, metamorfosi, oscillazione del corpo), traducendo in architettura la dimensione

instabile dell’identità. In questo senso l’analogia con il Barocco non è un riferimento stilistico, ma un

dispositivo atmosferico: lo spazio abbraccia, coinvolge, espone—e, soprattutto, trasforma.




La scelta di ibridare consultorio, attività commerciali e teatro istituisce un nesso potente fra intimità e sfera pubblica: ciò che tradizionalmente resta invisibile (la negoziazione dell’identità, i percorsi di ascolto e supporto) trova un “cuore” performativo che ne normalizza la presenza nello spazio civico. Non è solo mixité funzionale: è politica dello spazio. Il riuso di una struttura abbandonata—segnata da occupazioni e sgomberi—diventa risemantizzazione: dall’edificio-residuo all’edificio-relazione. Qui l’architettura non si limita a ospitare servizi, ma produce un protocollo di prossimità tra corpi, linguaggi e diritti.




La narrazione progettuale—Barocco, liquidità (Bauman), metamorfosi—rischia, se assunta in chiave iconografica, di diventare tema figurativo. Il passo in più sta nel tradurre la fluidità in soglie espanse: gradazioni più che confini, dispositivi che consentano diversi gradi di esposizione (dal colloquio riservato all’apertura pubblica), scenografie temporali (giorno/sera, eventi/quotidianità) e ambivalenze spaziali (un foyer che è piazza, un ballatoio che è atelier). La rappresentazione dovrebbe allora insistere non solo sulla forma-nastro, ma su mappe di intensità (acustica, luminosa, visiva) e su diagrammi dei comportamenti, per mostrare come lo spazio abiliti pratiche e non solo immagini.




Domande per l’autore

1. Se dovessi sviluppare oggi Identità Fluida in un contesto reale, quali modifiche faresti per adattarlo alle esigenze attuali?

Se oggi dovessi ripensare Identità Fluida, partirei proprio dai temi che lo avevano generato, perché oggi sono ancora più urgenti e centrali di allora. Quando ho elaborato la tesi, nel 2016, ero all’inizio del mio percorso e affrontavo con cautela argomenti come fluidità, identità, corpo. Oggi, dopo aver approfondito figure come Paul Preciado e i dibattiti sul transgenderismo e sulle identità non binarie, mi accorgo di quanto quelle riflessioni fossero in anticipo rispetto alla mia consapevolezza personale.

In una sua versione attuale, il progetto non sarebbe solo architettura, ma un vero e proprio dispositivo sociale e culturale, pensato per accogliere corpi e identità in transizione, storie fluide, narrative non conformi. Non più contenitore rigido, ma un ambiente trasformabile insieme alle persone che lo abitano, capace di offrire spazi neutri, adattabili, privi di gerarchie di genere. Immagino architetture inclusive dove il corpo possa esprimersi senza costrizioni, come già avviene in molte realtà che propongono bagni genderless o spazi performativi aperti.
Inoltre, oggi allargherei lo sguardo al rapporto tra umano e non-umano: Identità Fluida diventerebbe anche un ecosistema in cui la fluidità riguarda non solo i corpi e le identità, ma la convivenza tra specie, materiali, natura e artificio. L’architettura non come forma statica, ma come habitat vivo, multispecie e in continuo divenire.

2. C’è un legame evidente tra teoria sociologica e linguaggio architettonico: quanto è stato importante per te lo studio interdisciplinare (filosofia, sociologia, arte) durante la tesi?

Per me è stato essenziale. Senza filosofia, sociologia e arte il progetto sarebbe rimasto un esercizio astratto, limitato alla forma. Lo studio interdisciplinare mi ha permesso invece di vedere l’architettura come un processo culturale e politico, un discorso che si nutre di altri linguaggi e che con essi si intreccia. Filosofia e sociologia mi hanno insegnato a concepire corpi e identità come dinamici, sempre in trasformazione, e quindi a immaginare spazi che non siano rigidi, ma in grado di adattarsi. L’arte, invece, mi ha mostrato come tradurre queste intuizioni in immagini e dispositivi sensibili, capaci di evocare e comunicare.
Ricordo quanto fu illuminante leggere Architettura e disgiunzione di Bernard Tschumi e scoprire come architetti del decostruttivismo si siano lasciati contaminare da discipline come la psicanalisi. In quella direzione ho iniziato a vedere il progetto non solo come composizione, ma come traduzione materiale di un pensiero critico. Questo approccio, che potrei definire “indisciplinato”, lo porto avanti ancora oggi nella mia ricerca, perché credo che il valore dell’architettura stia anche nella sua capacità di trasgredire i confini disciplinari e creare nuovi modi di pensare e di vivere lo spazio.


3. Dopo l’esperienza del Tevere Cavo, in qualche modo questa tesi ha influenzato il tuo approccio professionale e il tuo lavoro oggi?

Identità Fluida ha segnato profondamente il mio percorso. Mi ha insegnato che l’architettura non è mai neutra, ma sempre politica e culturale, capace di influenzare corpi, relazioni, identità. Concludere il mio percorso universitario con questo pensiero è stato determinante, perché mi ha spinto a radicalizzarlo durante il dottorato, con la ricerca Hyper Natura, dove ho intrecciato biotecnologie, femminismo e bioarte per immaginare nuovi modi di progettare.
Da quella tesi nasce la mia attenzione per la materia come elemento vivo e relazionale: nei miei lavori attuali, dalla biofabbricazione con scarti organici a progetti speculativi come Uterine Spaces, porto avanti la stessa tensione verso fluidità, ibridazione, sperimentazione. L’architettura diventa così non solo costruzione di spazi, ma indagine sulla materia stessa e sui sistemi complessi che legano natura e cultura, umano e non-umano.
In questo senso, Identità Fluida non è rimasto un episodio, ma una matrice che continua ad alimentare la mia ricerca: la visione di uno spazio fluido, inclusivo, multispecie, è ancora oggi il filo conduttore del mio lavoro, sia in ambito accademico che artistico.

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